Dopo la chiusura imposta dalle leggi fasciste, il quotidiano socialista rinasce in Francia e diventa il cuore di una comunità resistente, un ponte tra gli esuli e l’Italia oppressa, una voce europea contro ogni totalitarismo.
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Si può chiudere un giornale, ma non si può chiudere una voce. Il fascismo ci ha provato il 31 ottobre 1926, mettendo il lucchetto alle redazioni e il bavaglio alle idee. Ma l’Avanti! – storico quotidiano socialista – non si è arreso. È rinato pochi mesi dopo a Parigi, piccolo e sbilenco, grande quanto una lettera da ufficio, con sopra il suo nome simbolo e lo slogan che ne riassume l’anima: Post fata resurgo. Dopo la morte, risorgo.
Non era solo un bollettino di partito: era un pezzo di patria in esilio. Fatto a mano, stampato con mezzi di fortuna, distribuito di notte per le strade dei quartieri popolari dai compagni emigrati. Era pensato per chi resisteva in Italia, per chi era fuggito, per chi non voleva dimenticare. Dentro c’erano le parole di Nenni, Saragat, Balabanoff, Rosselli. Ma anche quelle degli operai italiani a Marsiglia, dei tipografi a Bruxelles, dei contadini dell’Argentina.
Era un Avanti! che guardava avanti. Denunciava il colonialismo, condannava i processi staliniani, raccontava la guerra di Spagna con la voce di chi la combatteva. Teneva in vita la storia del socialismo italiano e già parlava di Europa, di Stati Uniti del continente, come sognava Turati. Un’idea alta, mentre in basso – tra una festa dell’Unità e un francobollo Matteotti da attaccare sulle lettere – si costruiva una comunità.
Quella comunità aveva tutto: i suoi riti, le sue piccole gioie, le sue tragedie. Si facevano sottoscrizioni per i carcerati, si raccontavano le nascite e i funerali, si organizzavano turni per piegare e spedire copie. Gli abbonamenti erano salvavita. I necrologi, forma di memoria resistente. La pubblicità, un modo per tenere in piedi il giornale e sostenere le attività economiche italiane antifasciste all’estero.
Il più commovente tra i tanti meriti dell’Avanti! è forse questo: aver fatto sentire meno soli i compagni in patria. Quando una copia – stampata su carta velina “grande come un fazzoletto” – riusciva a varcare la frontiera e arrivava a Milano o Roma, diventava preziosa come l’oro. “Il giornale è il segno tangibile che esistono uomini che la pensano come noi”, si legge in un comunicato clandestino. Ogni copia passava di mano in mano. Ogni parola accendeva una possibilità.
Se oggi possiamo rileggere quelle pagine, è anche grazie al lavoro di archiviazione digitale che le istituzioni stanno finalmente portando avanti. Ma è soprattutto un invito a interrogarci sul presente: in un tempo dove l’informazione è fluida, manipolabile, algoritmica, esiste ancora uno spazio per una stampa militante, coraggiosa, legata a un ideale?
La risposta è sì. A patto di ricordare che scrivere è resistere. E che un giornale, per quanto povero e stropicciato, può cambiare la storia se ha il coraggio di dire la verità.
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