Dai vicoli di Nocera ai confini dell’esilio, la vita coraggiosa di Emilia Buonacosa: una donna fragile e indomita, che ha sfidato il fascismo, l’umiliazione e la solitudine per difendere la dignità, la libertà e il diritto di esistere senza vergogna.
Questo racconto di Angelo Verrillo è stato pubblicato sulla rivista Critica Sociale (n° 10 Aprile 2025) e viene ripubblicato sul nostro blog con il consenso degli interessati.
Da ragazzo, a Nocera, davanti all’uscio di casa, abbasce a marrat, spesso vedevo passare una signora che aveva sempre la testa coperta da un colbacco, oppure da un fazzoletto annodato sotto al mento, come usavano le donne in chiesa.
Quella Signora, non copriva la testa per un vezzo, oppure per la moda dell’epoca. Lo faceva perché da ragazza, a causa di un grave di incidente sul lavoro, aveva perso una parte del cuoio capelluto e, da allora, era costretta a portare una parrucca.
Tutti sapevano della sua menomazione ed i ragazzi, che spesso sanno essere inconsapevolmente cattivi, a volte la rincorrevano e la dileggiavano canticchiando, ten a zell, ten a zell. Io non mi univo a quel coro ma, ciò nonostante, un giorno mio padre, in modo brusco e perentorio, vide quella scena e mi ordinò di fermare quei miei coetanei e di informarli che a quella donna si doveva il massimo rispetto.
Dopo aver assolto al compito affidatomi, mio padre mi spiegò che quella donna si chiamava Emilia Buonacosa, che lavorava al Comune di Nocera e che, durante la sua vita, aveva combattuto e lottato con il coraggio e la determinazione che a moliti uomini erano mancati.
La ramanzina finì solo quando ebbe aggiunto che, per le sue battaglie, quella signora, aveva subito già indicibili sofferenze, motivo per cui non poteva consentire che vi si aggiungessero anche le ingiurie di quattro scugnizzi.
Dopo di allora, sentii nuovamente parlare di lei solo nel 1964. L’anno prima mi ero iscritto alla FGCI e frequentavo, insieme ad altri ragazzi, la Sezione del PCI. A pronunciare il suo nome fu Pietro Amendola che era venuto a Nocera per preparare le elezioni amministrative, che si sarebbero svolte dopo qualche mese.
Pietro stava informando alcuni compagni dell’incontro avuto con il Dott. Carlo Greco, allora Commissario Prefettizio al Comune e, tra le altre cose, disse che quest’ultimo lo aveva reso partecipe del fatto di aver ricevuto una lettera del Vice Presidente del Consiglio, Pietro Nenni, che lo invitava ad avere un occhio di riguardo per la dipendente comunale Emilia Buonacosa.
Il parlamentare comunista concluse quel discorso affermando di essere particolarmente compiaciuto, sia della lettera di Nenni, sia del fatto che il Commissario lo aveva informato di ritenere suo dovere tenerla nella massima considerazione.
All’epoca, non pensavo ancora di poter intervenire nei discorsi dei compagni più anziani ma, nella mente, mi frullarono un sacco di domande e mi ritornò alla memoria quel discorso di mio padre, al quale, qualche anno prima, non avevo dato eccessiva importanza.
Avevo scoperto che, quella donna, non era una sua amica, o conoscente, ma un personaggio del quale avevano grande rispetto e considerazione personaggi quali Pietro Amendola e persino Pietro Nenni, l’indiscusso leader del PSI. Negli anni successivi, ho quindi approfondito la ricerca su questa donna e ho scoperto la storia straordinaria della sua vita e il suo contributo alla lotta contro il fascismo per la riconquista della libertà.
Emilia nasce a Pagani il 15 ottobre 1895, da genitori ignoti. Viene adottata da una famiglia di lavoratori di Nocera e trascorre in questa città la sua infanzia e la sua adolescenza, frequentando la scuola fino alla 5° elementare. Nel 1911, ad appena 16 anni, entra a lavorare in fabbrica ed inizia a frequentare il sindacato e gli ambienti anarchici.
Entra in rapporto con l’anarchico Ernesto Danio, fondatore della Camera del Lavoro di Pagani e va a convivere con lui per un paio di anni. In quel periodo, a seguito di un grave incidente sul lavoro, perse una parte del cuoio capelluto: poiché lavorava alle MCM, è verosimile che l’infortunio fu stato causato dai lunghi capelli che rimasero impigliati nel telaio al quale stava lavorando
A 18 anni viene già schedata e segnalata dalla polizia come “pericolosa sovversiva”. Dopo aver lasciato il primo lavoro, nel 1921 si trasferisce a Milano e va a convivere con il tipografo anarchico Federico Giordano Ustori che, accusato di un attentato e assolto dopo un anno di carcere, viene a vivere con lei a Nocera.
Dopo aver ricevuto diverse minacce dai fascisti, i due ritornano a Milano e nel 1924, si sposano ma, dopo la promulgazione delle leggi fascistissime del 1926, decidono di scappare in Francia. A Parigi la loro casa diventò un punto di riferimento per molti fuorusciti. Ustori, che lavora come linotipista con Treves alla “Libertà”, era frequente definire Stalin “spietato necroforo della rivoluzione”, colpevole della persecuzione degli anarchici in URSS.
Quando, nel 1930, Federico Ustori muore, Emilia riceve diverse testimonianze di solidarietà e vicinanza, tra le quali quelle di Treves e di Pietro Montanini della Concentrazione Antifascista, che le promette di riportare a casa da vincitori Federico, Amendola, Gobetti e tutti gli operai morti in esilio.
Emilia non si allontana dagli ambienti dei fuoriusciti e va a lavorare con Ettore Carozzo, editore e emigrato politico. Tra i luoghi da lei più frequentati c’è un caffè in Via Diderot dove, nel 1932, incontra il comunista Pietro Corradi, che le resterà accanto, prendendosene cura, per molti anni.
Vicina agli ambienti di Giustizia e Libertà, Emilia frequenta i liberali Bruno Gualandi, Renato Castagnola ed il medico Temistocle Ricciulli, con i quali accorre in Spagna allo scoppio della guerra civile. Nel 1937 è a Barcellona con l’anarchico Romano De Russo che, secondo gli informatori, intende organizzare un attentato antifascista. In quella esperienza, incontra Pietro Nenni che, da allora, non cesserà mai di proteggerla e tutelarla.
Tornata a Parigi nel 1938, si dedica a procurare documenti per gli esuli in fuga, ben consapevole dei rischi enormi ai quali si espone. Nel 1940, pochi giorni dopo che il Duce dichiarò guerra alla Francia, scrisse ad un’amica: “Quelli considerati i più sinceri fra gli amici, oggi cercano di pugnalarti alla schiena”. Quelle parole sembrano una preveggenza: il 9 luglio di quell’anno, come aveva previsto, un amico la vende ai tedeschi.
Condotta ad Aquisgrana, il 9 ottobre viene consegnata ai fascisti e portata a Napoli dove, a novembre, nega l’attività antifascista, la Spagna e le riunioni di Giustizia e Libertà. Ammette solo di conoscere il Dott. Ricciulli perché, qualche anno prima, le aveva curato una polmonite. Ciò nonostante, il 2 dicembre 1940, viene condannata a cinque anni di confino, senza essere stata assistita da un legale e senza che l’accusa avesse dimostrato nessuna delle accuse.
Emilia reagisce come ha sempre fatto: ricorre contro la sentenza “enorme e inumana, emessa senza alcuna prova, destinandola in luogo dove la famiglia non potrà farle visita, io non ho commesso nessun atto violento e non sono capace di commetterlo”. Ovviamente, il ricorso viene respinto e la Buonacosa giunge a Ventotene il 13 dicembre 1940.
In quell’isola, trascorrerà il periodo più doloroso ed eroico della sua vita. A pochi giorni dal suo arrivo, dopo che un medico attesta che ha bisogno di cure, avanza la richiesta di un sussidio per il vestiario e di una parrucca perché, al momento dell’arresto, non gli è stato consentito di prendere il suo corredo, rimasto nelle valigie in mano ai tedeschi e perché la parrucca era stata danneggiata in quella circostanza.
Aggiunge poi che, se manca di tutto, è perché il medico ha ignorato il suo vecchio infortunio e la polizia l’ha trascinata via senza consentirle di prendere le sue cose. Il Ministero è costretto a ricercare le valigie del corredo, perse nel carcere tedesco, ed a farsi carico delle spese per la parrucca rotta.
Emilia, nonostante le sofferenze, insite: per la parrucca, propone di condurla a Napoli, e per la malattia, di avvicinarla alla casa dei genitori adottivi. Il medico, attesta nuovamente la diagnosi di “Psicoastenia a sfondo depressivo, che può indurre al suicidio” e il Prefetto di Littoria autorizza il trasferimento ma il Ministero lo nega decisamente.
Emilia, nonostante scriva “vivo in penosissime condizioni”, non si arrende e ritorna a chiedere delle valige in cui custodiva il suo corredo, costato anni di fatica e di cui non sa ancora nulla. Infine, quando sembra deciso di condurla a Napoli, si scopre che mancava la scorta.
Passarono otto mesi, con dolori alla testa e col “timore del ridicolo per le condizioni della parrucca”, prima che, il 19 agosto 1941, finalmente la accompagnano a Napoli, da dove ritorna con una parrucca nuova e decorosa.
Emilia, dopo aver rivendicato più volte il permesso di scrivere a Parigi per mantenere contatti con Pietro Corradi, si vede concedere dal Ministero questo diritto solo nei primi mesi del 1943. Nella prima lettera che scrive al compagno si lamenta con lui che, per aiutarla le aveva venduto dei mobili, perché il cambio era così sfavorevole da sconsigliare altre vendite: Meglio conservare ciò che resta, altrimenti, scontata la pena, “mi ritroverei senza casa e senza la possibilità di formarmene un’altra.
Per alcuni mesi Emilia si vede costretta a bere acqua di mare bollita e mangiare foglie di fichi d’india cotte. Le sue condizioni di salute peggiorano, il sistema nervoso, già indebolito per l’infortunio giovanile, le procura frequenti vertigini e oscuramenti della vista. Per poterla curare, il medico prescrive dei farmaci e un vitto speciale ma il direttore, Marcello Guida, che puntava a fiaccarne il morale e la resistenza, ritarda la trasmissione delle richieste al Ministero. Arriva poi il colpo più doloroso: chiede di poter rivedere la madre, ormai anziana, ma il Duce in persona comunica a Ventotene che “la domanda per ottenere una breve licenza a favore della Buonacosa Emilia non è stata accolta”.
Poi, finalmente, il 26 luglio 1943, a Ventotene arriva la notizia dell’arresto di Mussolini. Guida si affretta a togliere dal muro il quadro dalla parete, il distintivo dal petto e diventa molto più ragionevole nei confronti dei confinati.
Emilia guida una protesta dei confinati e “in nome delle mutate condizioni politiche chiediamo l’immediata liberazione”. Quando, il 23 agosto 1943, lascia l’isola pensa di tornare a casa, invece si ritrova tra i morti e le macerie di Formia per poi arrivare al campo di Fraschetta d’Alatri, dove rimane insieme a migliaia di internati, per lo più donne e bambini.
Per l’ennesima volta, la Buonacosa si mette alla testa dei confinati, che chiedono a Badoglio la loro immediata liberazione. Purtroppo, il Ministro dell’interno, Umberto Ricci, ex Prefetto di Mussolini, non sapendo cosa fare, pensa bene di rinviare ogni decisione.
L’ordine di liberare Emilia parte da Roma il 7 settembre, mentre il Governo prepara la fuga, e giunge al campo solo il 4 novembre successivo, quando gli eventi bellici impediscono il suo ritorno a casa.
Finalmente, ritorna a Nocera il 7 agosta del 1944 e Nenni le scrive promettendole che andrà a farle visita. Non si è in grado di sapere se lo fa fatto, anche se rimase sempre in contatti epistolari con lei.
Il 4 aprile 1945, quando al Comune di Nocera gli alleati avevano richiamato Giuseppe Vicidomini per nominarlo Sindaco Straordinario, Emilia Buonacosa viene assunta come dipendente comunale.
Nel Maggio 1959, quando Emilia chiede la pensione per invalidità aggravata dalla persecuzione politica, che una legge prevede di risarcire, le autorità di polizia rispolverano i vecchi rapporti e la descrivono ancora come una “sovversiva pericolosa”, quasi a voler intendere che, tutto sommato, la persecuzione se l’era andata cercare.
Emilia, va a trovare Nenni nel 1964 a Palazzo Chigi, quando questi riveste la carica di Vice Presidente del Consiglio. È preoccupata del fatto che il Commissario Prefettizio abbia deciso di collocare in pensione tutti i dipendenti che avevano compiuto 65 anni, mentre lei, che aveva meno venti anni di servizio, ambiva a lavorare fino ai settanta anni.
Il giorno dopo, Nenni scrive una lettera al Dott. Greco, nella quale ricordando “gli anni di confino, deportazione e carcere” della Bellacosa, aggiunge “Credo comunque che ciò dovrebbe valerle un trattamento di riguardo”.
Emilia Buonacosa va in pensione il 31 luglio 1966 e, nel 1969 prova, forse, l’ultimo dolore della sua vita: dopo la Strage di Piazza Fontana, l’arresto di Valpreda e la morte di Pinelli, scopre che a dirigere quella Questura c’era Marcello Guida, lo stesso che anni prima dirigeva e controllava i confinati a Ventotene, quello che ostacolava tutte le sue rivendicazioni e quello che, tra l’altro, proponeva di prolungare il trattenimento sull’isola di Terracini e Camilla Ravere.
Emilia trascorre la sua vecchiaia delusa, ma serena. Aveva vissuto una vita di lotte e di sofferenze perché, ogni volta che doveva fare una scelta, finiva sempre per fare la cosa che riteneva più giusta, non quella che più le convenivano.
Faceva così anche nella vita privata e nella selezione degli amici e dei compagni. Aveva amato e sposato un anarchico e, rimasta vedova, era diventata la compagna di un comunista. Non badava alle etichette politiche e stabiliva rapporti di amicizia e solidarietà con le persone che riteneva più combattive e coerenti: anarchici definiti pericolosi, comunisti antistalinisti, socialisti del calibro di Nenni e Treves ed anche liberali di Giustizia e Libertà.
In condizioni estreme, Emilia Buonacosa è stata una antesignana delle lotte per i diritti civili: innanzitutto il diritto alla libertà, per conquistare la quale lotta per tutta la vita; il diritto a scrivere al compagno a Parigi, seppure in stato di costrizione; il diritto a rivedere e riabbracciare quella madre adottiva che l’aveva accolta dopo l’abbandono da parte dei genitori naturali.
Tuttavia, è mia convinzione che la lezione più significativa Emilia l’ha lasciata alle donne. Perché, oltre che per i diritti civili universali, lei lottò sempre per i suoi diritti soggettivi di donna: il diritto ad un vestiario dignitoso, si pensi alle tribolazioni per la restituzione delle valigie con il corredo e, per finire, il diritto ad ottenere una parrucca dignitosa e che non la facesse sentire ridicola.
Sarebbe il caso, ricordando il suo esempio, di lottare per il diritto alla parrucca di tutte le donne che ne sentono il bisogno.
Un’ultima annotazione per ricordare che, negli ultimi anni di vita, Emilia trova conforto nell’amicizia di un giovane avvocato nocerino che le faceva visita ogni mercoledì, insieme alla moglie. Aldo di Vito seppe stabilire un rapporto così intenso con quella donna, oramai anziana, da portarlo al suo capezzale al momento del trapasso, il 12 dicembre 1976.