Verso il 25 aprile: L’importanza di chiamarla Guerra

Se c’è un elemento che ha accomunato tutti coloro che militarono nella Resistenza, fossero partigiani comunisti, cattolici o liberali, era la convinzione che proprio di una guerra si trattasse

Questo articolo di Marco Mondini è stato pubblicato originariamente sul sito della Rivista Il Mulino il giorno 4 aprile 2025 ed è ripubblicato con il consenso degli interessati

Sostiene Gustavo Zagrebelsky, in una recente intervista rilasciata a «Repubblica», che la Resistenza italiana non fu una guerra. «La resistenza non è una guerra. Quella italiana è stata fatta con azioni anche militari, ma difendersi quando sei attaccato con la forza è un diritto naturale». In effetti, ciò che le parole di Zagrebelsky paiono intendere è che a una lotta (anche armata) eticamente giusta si contrapporrebbe la guerra, che è da condannare sempre, senza se e senza ma: «Quella della Russia nei confronti dell’Ucraina è una guerra, quella degli ucraini è resistenza» (A. Cuzzocrea, Zagrebelsky: vedo il passato in guerra col futuro, «la Repubblica», 25.3.2025).

A chi abbia un minimo di dimestichezza con la storia italiana tra 1943 e 1945, la distinzione può apparire quantomeno bizzarra. Perché se c’è un elemento, anche solo uno, che avrebbe accomunato chi in quei due anni combatté contro i tedeschi e i fascisti della Repubblica sociale era la convinzione che proprio di una guerra si trattasse. Diversa da tutte le altre, non c’è dubbio. E specialmente da quelle di aggressione, ideologiche o di conquista imperiale che il regime fascista aveva lanciato con alterne fortune, dall’Etiopia alla Grecia alla Russia, passando per la Spagna.

Generato dalla cultura della violenza mobilitata nel 1915, autoproclamatosi erede ideale della nazione migliore e più forte plasmata dal sangue e dal fuoco delle trincee («l’Italia di Vittorio Veneto», secondo la celebre frase attribuita a Benito Mussolini, e che naturalmente non venne mai pronunciata), il fascismo aveva in effetti postulato la guerra come pilastro del progetto totalitario. Il campo di battaglia non avrebbe solo permesso all’Italia di ottenere finalmente quel ruolo di grande potenza che dimorava nei sogni del vario nazionalismo più o meno dai tempi dell’unificazione. Avrebbe anche rifatto gli italiani. Li avrebbe trasformati finalmente in quella razza guerriera che erano destinati a essere, eredi di Roma, perenni soldati disciplinati al servizio di uno Stato-caserma che li avrebbe irregimentati fin dalla gioventù, controllati e infine usati come manodopera per i propri obiettivi espansionistici. «Il Risorgimento non è stato che l’inizio… la guerra mondiale fu invece profondamente educativa. Si tratta ora di continuare in quest’opera di rifacimento del carattere degli italiani», sentenziò il duce nel 1930.

Il fascismo aveva postulato la guerra come pilastro del progetto totalitario: il campo di battaglia non avrebbe solo permesso all’Italia di ottenere finalmente il ruolo di grande potenza, avrebbe anche rifatto gli italiani

Con questa concezione della guerra, etica e dominante nel destino dell’uomo nuovo e della nazione littoria e trionfante, chi prese le armi dopo l’8 settembre 1943 aveva decisamente ben poco a che fare. Il che non toglie che sempre all’idea di una nuova guerra si pensasse. Una «guerra di popolo», come l’avrebbe definita nel 1947 il capo partigiano comunista Luigi Longo (Un popolo alla macchia). Una «guerra partigiana», secondo la formula usata da Dante Livio Bianco nel 1945, quando nel primo numero non più clandestino dei “Nuovi Quaderni di Giustizia e Libertà” pubblicò la prima bozza dei Venti mesi di guerra partigiana nel Cuneese. Una guerra magari fatta male, da dilettanti allo sbaraglio, come avrebbe confessato molti anni dopo Luigi Meneghello, che con Piccoli maestri della Resistenza avrebbe offerto un quadro straordinariamente vivido e (auto)ironico. Ma guerra, comunque.

«Guerra per la liberazione», avrebbe chiosato Ferruccio Parri parlando al teatro Eliseo di Roma il 13 maggio 1945, quando le armi in Europa avevano appena cessato di sparare: «La vittoria […] è stata ottenuta dal popolo attraverso una sua guerra di liberazione, una guerra di popolo» (F. Parri, Scritti 1915/1975, Feltrinelli, 1976). Sarebbe toccato a lui, il «comandante Maurizio», che di conflitti mondiali ne aveva vissuti due (e il primo aveva pure contribuito non poco a vincerlo, partecipando alla stesura del piano di operazioni per l’ultima offensiva del 1918) e che si era ritrovato al vertice militare del Cln con Longo e il generale Raffaele Cadorna, il non facile compito di guidare, in quell’estate di ottant’anni fa, il penultimo governo del Regno d’Italia. Il primo della pace. E di formulare in quell’occasione uno dei più lucidi e compiuti testamenti morali e politici della Resistenza. Subito dopo la sua nomina a presidente del Consiglio, in un lungo messaggio alla radio trasmesso la sera del 22 giugno 1945 e divenuto celebre come il discorso de Il sigillo di sangue, Parri avrebbe chiarito come la guerra di liberazione fosse stata in primo luogo un riscatto:

«Sotto la camicia fascista una nuova Italia è apparsa, una Italia disperata ma ansiosa della sua libertà, ferita nel suo senso dell’onore, una Italia che ha sentito il dovere e il diritto di versare anche il suo sangue per il suo riscatto. Ci siamo purificati, cittadini, col sangue dei figli migliori. E il sigillo di sangue abbiamo posto sul fascismo perché ogni ponte fosse rotto e impossibile ogni ritorno verso il passato».

Non sarebbe stato l’unico a proclamarlo. L’ansia di una guerra per redimersi, per purificarsi della colpa e della vergogna di vent’anni di dittatura, fu un ideale condiviso tra chi militò nella Resistenza, fossero i partigiani del Nord, comunisti, cattolici o liberali, e persino la maggioranza dei militari che aderirono a ciò che rimaneva delle (alquanto scalcinate) forze regolari del Regno del Sud. Una galassia di combattenti divisi da tutto. Diversi per fedeltà e progetti sull’Italia di domani, non di rado in competizione (e talvolta persino impegnati a eliminarsi a vicenda), ma se non altro legati da una scelta, quella di battersi, motivata spesso (e a volte paradossalmente) con le parole del tradizionale vocabolario guerriero nazional-patriottico ereditato dalla generazione precedente. Onore e resurrezione, attraverso la battaglia e la morte, sarebbero state chiavi ideologiche usate almeno quanto libertà, antifascismo, democrazia, per spiegare la consapevole (e accettata) ordalia di violenza, sangue e morte che aveva travolto gli italiani.

«Che ci fate ancora in divisa e in armi?» chiede in Primavera di bellezza (1959) il protagonista Johnny a un gruppo di soldati incontrati lungo la via che da Roma lo porta a casa, in Piemonte. «La guerra, no?» è la risposta. Johnny, alter-ego di Beppe Fenoglio, che dopo l’8 settembre aveva vissuto personalmente l’esperienza dello sbandamento e del cammino dalla capitale verso Nord, rimarrà affascinato dall’idea che, in fin dei conti, dopo l’armistizio non tutto è solo fuga, confusione e vergogna, come il trauma dello sfascio dell’esercito e della resa l’aveva portato e pensare: «La guerra ai tedeschi. Noi siamo ribelli, noi abbiamo sputato la pillola dell’otto settembre. Noi non andiamo a casa, restiamo a combattere i tedeschi fin che ce ne sarà uno in Italia».

Ada Gobetti, la vedova di Piero, che a Torino in quegli anni insegnava, traduceva e faceva parte delle trame clandestine del Partito d’Azione, non avrebbe usato parole molto diverse nel suo Diario partigiano (1956) per raccontare la scelta (sua e del figlio diciottenne) all’indomani dell’occupazione tedesca di Torino: una donna che si trasformava in un bandito, pronta ad «agire e lottare senza pietà e senza tregua… la guerra siamo noi che la facciamo, la nostra guerra…». Dopo tanti anni di “credere, obbedire e combattere”, e di campagne sgangherate mal condotte da generali incompetenti per motivi di prestigio, una guerra vera stava finalmente cominciando. Parteciparvi per sanare l’Italia dal morbo del fascismo, costi quel che costi, sarebbe divenuto un testamento morale per i vecchi antifascisti, da trasmettersi di padre in figlio o di maestro in discepolo. «La guerra vera per l’Italia vera», avrebbe esclamato il professor Silvio Trentin, appena tornato in Italia dopo anni di esilio e che di lì a qualche mese sarebbe stato arrestato di nuovo a Padova. Dopo la sua morte, il figlio Bruno, futuro segretario della Cgil, avrebbe continuato a credere che la lotta andasse portata avanti contro i traditori della Patria, Benito Mussolini e i suoi lacchè in uniforme (come Rodolfo Graziani) in testa.

Una guerra vera stava finalmente cominciando. Parteciparvi per sanare l’Italia dal morbo del fascismo, costi quel che costi, sarebbe divenuto un testamento morale per i vecchi antifascisti

Certo, dopo il 1945 anche in Italia, come più o meno ovunque nell’Europa lasciata dal conflitto totale in macerie a piangere milioni di morti (e ossessionata dall’incubo atomico), si sarebbe fatta strada l’idea che la guerra aveva perduto ogni legittimità e che doveva uscire dall’orizzonte del pensabile e, sperabilmente, delle opzioni degli Stati. L’opposizione radicale a ogni ipotesi di uso delle armi avrebbe scoperto col tempo diversi padri. Alcuni erano spinti da interessi schiettamente politici. La crociata del Pci negli anni Cinquanta contro il riarmo e la Nato aveva molto a che fare con l’ortodossia antiamericana e poco con l’aspirazione alla pace universale. Altri da ideali più nobili, come Aldo Capitini, il pioniere della non violenza, o Piero Calamandrei, che nel 1915 era partito per il fronte entusiasta, convinto di prendere parte all’ultima campagna del Risorgimento. «Preparare la guerra già vuol dire fare la guerra», avrebbero scritto su “Il Ponte” nel 1949, lo stesso anno in cui, in veste di deputato, Calamandrei votava contro la ratifica dell’adesione italiana alla Nato. Una nuova sensibilità destinata a diffondersi rapidamente nella penisola, come il successo di massa della prima marcia della pace Perugia-Assisi, nel 1961, avrebbe clamorosamente testimoniato. Nei fatti, la Repubblica avrebbe continuato a investire ingenti risorse per la propria difesa (e poi per le «missioni di pace»). Ma molti italiani, e dopo il 1989 la maggioranza degli italiani, avrebbero cominciato ben presto a ritenere che sicurezza e armi non erano più affare loro, e che la pace era un dato di natura scontato (e gratuito).

Un’illusione, il cui fallimento sarebbe stato certificato, già alla fine del XX secolo, dai massacri nella ex Jugoslavia, di fronte ai quali gli europei rimasero attoniti, e che avrebbero sconvolto un rispettato intellettuale pacifista come Norberto Bobbio. Un’illusione ancora ben radicata, però. Che aiuta a capire alcune curiose idiosincrasie di un dibattito pubblico, quello italiano di oggi, in cui la parola «guerra» sembra diventata talmente impronunciabile da spingere persino i commentatori più autorevoli a falsificare il passato pur di evitarla.

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