La cassetta degli attrezzi del revisionismo fascista

Minimizzare i crimini, esaltare le opere pubbliche, mistificare il consenso, equiparare fascismo e antifascismo: così il revisionismo di oggi tenta di trasformare il regime in un modello positivo, indebolendo i valori su cui si fonda la nostra democrazia.

Nel corso di questi 80 anni, in particolar modo quest’ultimi, il revisionismo storico sul fascismo è emerso in forme sempre più subdole e pervasive. Non si tratta di una legittima rilettura critica della storia, che è naturale nella dinamica della ricerca storica ma, piuttosto, di una vera e propria operazione ideologico-politica (spesso accompagnata da un eccessivo carico emotivo) che mira a depotenziare il giudizio storico sul regime fascista, a minimizzarne i crimini, a normalizzarne gli atti antidemocratici, talvolta persino a riabilitarlo come modello positivo di ordine, prosperità e modernizzazione.

Più volte e, soprattutto, nei giorni precedenti o successivi il 25 aprile, mi è capito di riflettere e di confrontarmi su questo “fenomeno”, arrivando alla conclusione che il revisionismo, quello fascista, si serve di un vero e proprio armamentario di strumenti retorici e narrativi codificati, una sorta di cassetta degli attrezzi.

La minimizzazione dei crimini del regime è il principale arnese della cassetta. Le leggi razziali del 1938 e la brutale eliminazione degli oppositori politici, la limitazione dei diritti civili e la soppressione delle libertà politiche, la censura e il controllo dell’informazione, la repressione del dissenso e il controllo della vita privata dei cittadini vengono trattati, e spesso rappresentati, come episodi marginali o come scelte forzate da incomprensibili circostanze esterne. Viene così cancellata la responsabilità intrinseca del fascismo come regime totalitario fondato sulla violenza e sulla negazione dei diritti fondamentali.

Un altro strumento è l’esaltazione delle opere pubbliche. Non è raro sentire ancora oggi ripetere che “il fascismo ha fatto anche cose buone”: le bonifiche, le infrastrutture, i progetti architettonici. Si dimentica volutamente che questi risultati furono ottenuti in un contesto di repressione capillare, censura, esclusione politica e, per molti, terrore quotidiano. L’efficienza amministrativa, ove presente, non può oscurare il carattere autoritario e antidemocratico del regime.

Un terzo attrezzo è la esaltazione del consenso. Si insiste sul presunto “amore” degli italiani per Mussolini, ignorando che quel consenso fu costruito attraverso la manipolazione sistematica dell’informazione, l’educazione totalitaria delle nuove generazioni, la repressione di ogni dissenso, la propaganda martellante. La libertà di scegliere è una condizione indispensabile per parlare di vero consenso: e sotto il fascismo, come sotto ogni regime, questa libertà è cancellata.

Particolarmente insidiosa è poi l’equiparazione “morale” tra fascismo e antifascismo. Si tende a porre sullo stesso piano le violenze del regime e gli episodi controversi legati alla Resistenza, suggerendo che “gli eccessi ci furono da entrambe le parti”. È una logica profondamente falsa e pericolosa: da una parte c’è un regime dittatoriale che ha negato le libertà, perseguitato minoranze, condotto guerre di aggressione, commesso le più gravi atrocità spesso in collaborazione se non sotto il controllo diretto dell’alleato tedesco; dall’altra c’è un movimento popolare, non identificabile con una sola parte politica, che ha lottato per la liberazione, pur con tutte le contraddizioni proprie di una “guerra civile”.

Altri strumenti dell’armamentario revisionista sono la decontestualizzazione delle fonti storiche e delle dichiarazioni, oltre l’appello retorico alla “pacificazione” nazionale. Estrapolare episodi positivi o negativi senza inserirli nel quadro generale è un metodo ingannevole, volto a ridisegnare il passato a proprio uso e consumo. Invocare la “fine delle divisioni” tra fascisti e antifascisti — come se fossero semplici avversari ideologici — significa invece mettere sullo stesso piano vittime e carnefici, oppressi e oppressori.

La mia riflessione non vuole essere una chiusura dogmatica alla ricerca storica, che deve rimanere libera e aperta ma, al contrario, è un invito a distinguere e a difendere la ricerca dalla manipolazione, a proteggere la memoria storica dalla sua riduzione a strumento politico.

Il revisionismo fascista è pericoloso non solo perché distorce il passato, ma perché indebolisce il presente. Rende più fragile la nostra coscienza democratica, legittima forme nuove di autoritarismo, giustifica la sistematica contrazione dei diritti e delle libertà individuali, alimenta nostalgie che possono trasformarsi in pratiche politiche reali.

Contrastare il revisionismo non significa essere prigionieri del passato. Significa difendere l’idea stessa di democrazia, libertà, giustizia.
Significa ricordare che la Repubblica italiana nasce dalla lotta antifascista , che i valori della Costituzione — uguaglianza, dignità, libertà — non sono “ideologie di parte”, ma conquiste universali.

La memoria, oggi più che mai, è un atto di responsabilità.
Non è una nostalgia sterile: è resistenza viva.

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