La resa dell’Ucraina potrebbe segnare non solo la fine di un conflitto, ma anche il crollo dell’ordine democratico liberale dell’Europa
C’è un punto in cui le scelte politiche smettono di essere strategia e diventano morale. Quel punto è stato superato quando Donald Trump ha mostrato la sua sudditanza a Vladimir Putin, quando ha parlato del conflitto come di un fastidio da archiviare, di una terra che, chissà, un giorno potrebbe anche tornare russa, arrendendo nei fatti l’Ucraina e il suo popolo.
È esattamente dopo queste parole dell’egoarca narcisista americano che la parola “onore”, ormai confinata a un’idea antiquata e polverosa, è tornata ad avere un senso. E se il concetto può sembrare obsoleto, il disonore, invece, è sotto gli occhi di tutti.
Sergio Mattarella ha parlato chiaro: l’invasione russa dell’Ucraina non è altro che la riproposta, a parti invertite, degli orrori del Terzo Reich, con la sua caccia allo “spazio vitale”. Parole forti, che risuonano come un pugno nello stomaco, collocando l’aggressione russa nella scia più oscura della storia europea. Il disonore sta tutto lì: nell’abbandonare un popolo intero, nel tradirlo, nel trasformare la libertà in merce di scambio.
In gioco non c’è solo la sopravvivenza dell’Ucraina, ma la credibilità di un’Europa che non può più permettersi di chiudere gli occhi e nascondersi dietro al quieto vivere. La caduta dell’Ucraina non sarebbe solo una disfatta militare, sarebbe la prova generale della fine della democrazia liberale, l’anticamera di un mondo in cui Mosca, Pechino e Washington decidono i destini dei popoli senza neanche consultarli. È un déjà-vu inquietante, un ritorno a Yalta senza nemmeno la cortesia dell’ipocrisia diplomatica.
Nel frattempo, chi ha creduto in un radioso destino per la resistenza ucraina ha sbagliato i conti. Troppo spesso si è voluto raccontare il conflitto come un’epopea senza ombre, evitando di ammettere gli ostacoli, le esitazioni, le crepe nel consenso interno. La guerra è diventata una narrazione astratta, e mentre i governi occidentali si concentravano sulla strategia militare, dimenticavano la realtà delle retrovie: la fatica, la paura, il progressivo disincanto di un popolo costretto a vivere nel terrore.
Ma Zelensky può ancora opporsi, a patto di avere il sostegno del suo popolo. Un sostegno che, però, sembra sempre più fragile. La sua popolarità internazionale non basta più a compensare la perdita di consensi in patria. Il presidente ucraino ha una sola carta da giocare: rinunciare alla ricandidatura. Sarebbe un gesto di grande responsabilità, un modo per dimostrare al suo popolo che il bene del paese viene prima del suo potere personale. Ma il tempo stringe, e le mosse frettolose contro gli oligarchi come Poroshenko fanno dubitare delle sue reali intenzioni.
Nel frattempo, Trump ha già deciso il destino dell’Ucraina. Come ha rivendicato la sua proprietà sulla riviera di Gaza, così considera le terre rare ucraine un bottino di guerra già assegnato. Il messaggio è chiaro: l’America che ha difeso Kyiv fino a oggi potrebbe non essere la stessa domani. E il rischio di un epilogo afghano, con un ritiro improvviso e caotico, è sempre più concreto.
Ma se c’è una lezione che la storia insegna è che nessun popolo si arrende senza conseguenze. L’occupazione sovietica non spense la resistenza ucraina nel dopoguerra, e oggi non basteranno le manovre di Trump e Putin a cancellare il desiderio di libertà di un’intera nazione. Ci sarà un prezzo da pagare, e sarà alto. Ma il vero costo lo pagherà un Occidente che, se continuerà a cedere, avrà smarrito non solo l’onore, ma anche il senso della propria esistenza.