I nuovi partigiani

Mentre l’applauso ai nuovi autoritarismi cresce nel silenzio generale, essere partigiani oggi significa disobbedire all’indifferenza, difendere la democrazia e rifiutare l’idea che il passato non possa più insegnarci nulla.

(Tempo di lettura 7 minuti)

Nel mio palazzo abita un signore anziano, da ragazzo quel signore è stato un partigiano … la sua faccia che la storia vuole dimenticare è la faccia che invece io voglio ricordare” cantava Lorenzo Jovanotti in una canzone generazionale da titolo emblematico “Barabba”, pubblicata nel 1994. Il 1994, mentre il nostro Paese, per la prima volta, vedeva il populismo conquistare la maggioranza politica e stabilirsi a Palazzo Chigi, è l’anno nel quale la faccia di quel partigiano inizia a sbiadirsi, a perdere l’aurea dell’eroe che, assieme al contributo essenziale degli Alleati, ci aveva regalato la Libertà dopo un ventennio di dittatura.

Fino ad allora il 25 aprile era sempre stata una festa indiscussa, la ricorrenza in cui gli italiani ricordavano la fine dell’occupazione nazista e del regime fascista che da Salò aveva cercato di opporsi alla sconfitta oramai inevitabile. Le note di “Bella ciao” risuonavano nelle piazze, a scuola o nelle officine senza destare alcun retropensiero, senza che nessuno si permettesse di disconoscerne il valore catartico e simbolico. Almeno così sembrava: perché in questo Paese, caduti il fascismo mussoliniano – una delle nostre invenzioni più esportate all’estero – non è in realtà mai scomparsa l’ideologia di fondo che lo ha sostenuto, in un certo momento con un favore popolare indubbio, durante il Ventennio. Il neofascismo ha lavorato ai fianchi della democrazia sottotraccia, con trame spesso segrete coperte da logge eversive, a volte fin troppo palesi a suon di bombe e stragi, mentre introno a noi, in Spagna, Portogallo, Grecia, le giunte militari ci stringevano come una tenaglia nel Mediterraneo. Erano gli anni Settanta, qualcuno ha parlato di una guerra civile strisciante che pure, alla fine, sembrava ancora una volta aver visto affermarsi i principi di democrazia e solidarietà, grazie anche alla realizzazione di un Welfare sempre più spinto.  L’oscurità della “notte della Repubblica” era stata squarciata dalla luce della stagione d’oro del riformismo italiano che aveva prodotto pietre miliari come lo Statuto del Lavoratori o il Servizio Sanitario Nazionale, che realizzavano finalmente alcuni dei principi cardine posti dalla nostra Costituzione nati in contrapposizione proprio al fascismo.

A distanza di decenni, e proprio a iniziare dagli ultimi anni del secolo scorso, in contemporanea con un ordine mondiale che mutava radicalmente, trasformandosi ben presto in un “disordine” mondiale, possiamo tranquillamente affermare che ci eravamo illusi. La democrazia sta perdendo sempre più il suo appeal presso un’opinione pubblica divenuta nel frattempo molto “social” e poco “politica”; la scorciatoia di soluzioni semplici a fronte di problemi sempre più complessi è diventata la chiave del successo per chi si candida a governare le Nazioni. Tutti quelli che si ostinano ancora a rivendicare i valori della democrazia, della solidarietà, della giustizia sociale, è considerato in larghi settori del mainstream, a differenza di trent’anni fa, un ostacolo allo sviluppo economico sempre più deregolamentato.

In questo nuovo contesto ha quindi ancora un significato festeggiare il 25 Aprile? È evidente che, allargandosi sempre più la massa di opinione pubblica che si ritrova nei postulati del moderno patto sociale basato sull’ egoismo individuale, sul benessere personale a discapito di quello collettivo, affermare i valori della Resistenza sembra essere un esercizio anacronistico. Eppure, è questo il tempo per tornare ad essere “partigiani”, nel senso etimologico di essere “di parte”, di prendere posizione contro la deriva sempre più autoritaria che molti Stati stanno abbracciando tra gli applausi di una folla distratta e intellettuali allineati. Nuove forme di ingiustizia, di disuguaglianza, di discriminazione stanno emergendo ed essere “partigiani” significa resistere, proprio oggi, nel ventunesimo secolo, ai moderni fascismi difendendo diritti individuali, politici e sociali, che sembravano acquisiti e che invece sono messi continuamente in discussione. Non è certo più il tempo di imbracciare il fucile: la pace, la pace giusta, nella società e tra gli Stati, con il sogno ingenuo ma necessario della fine di ogni guerra è un obiettivo del partigiano moderno. Tuttavia, la trasformazione veloce di molti regimi democratici in democrature chiama il partigiano del ventunesimo secolo alla mobilitazione per far sentire la propria voce e denunciare le manovre che vogliono trasformare, in maniera subdola, i cittadini in una indistinta massa che plaude ai moderni “dittatori” legittimati dal voto.

 Essere “partigiani” oggi significa, infine, combattere l’indifferenza. Non è necessario citare Dante o Gramsci per renderci conto che l’indifferenza è sempre stato il male politico peggiore: nel silenzio, sia esso involontario o complice, i nuovi dittatori possono realizzare indisturbati le proprie idee e soffocare lentamente qualsiasi forma di critica. L’ignavia civile – ce lo insegna proprio la Storia del secolo scorso – induce ad accettare il Male, a farcelo ritenere inevitabile, addirittura banale. L’indifferenza verso tutto ciò che accade fuori dalla nostra porta di casa, è diventato l’avversario più difficile da sconfiggere per i partigiani del nostro Tempo.

 L’ottantesimo anniversario della Liberazione ci richiama prepotentemente alla nuova “lotta partigiana”: vivere da “partigiani” per evitare un giorno, di fronte alle domande dei nostri nipoti che ci chiederanno come sia stato possibile che lasciassimo accadere l’irreparabile, di abbassare la testa rosi dal rimorso di non averci neppure provato.

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