Partigiano, comandante, figlio dell’Agro nocerino trapiantato tra le montagne del Piemonte, Alfredo Bevilacqua ha scelto la Resistenza fino all’ultimo respiro. La sua storia è un esempio di coraggio che ci sfida ancora oggi, contro ogni resa al cinismo e alla paura.

Ci sono storie che non andrebbero solo ricordate. Andrebbero vissute, portate dentro come un atto di resistenza quotidiana. Alfredo Bevilacqua, nato a Nocera Superiore nel 1921, ha fatto questa scelta in un momento in cui scegliere significava rischiare tutto: il 12 settembre 1943, mentre il paese cadeva a pezzi, lui entrava nella Resistenza, arruolandosi nella 42ª Divisione Garibaldi in Piemonte.
Non era solo un giovane in cerca di riscatto: Bevilacqua si dimostrò subito un comandante capace, amato dai suoi compagni e temuto dai suoi nemici. Credeva nella libertà, ma non con le parole vuote dei proclami: la sua era una fede concreta, costruita missione dopo missione, condividendo i rischi e i sogni con chi, come lui, voleva un’Italia diversa.
Il 20 aprile 1945, in località Prato del Rio-Condove, a pochi giorni dalla Liberazione, la tragedia: le forze fasciste, appoggiate dalle SS, sferrarono un attacco devastante. Quel giorno morirono 16 partigiani, trucidati nell’eccidio di Vaccherezza.
Tra i caduti, anche Alfredo. Ferito a una gamba durante un combattimento durissimo, scelse di non cedere. Sparò fino all’ultima pallottola, rifiutò l’umiliazione della resa e, quando capì che non c’era via di scampo, rivolse l’arma contro sé stesso.
Il suo gesto non fu una fuga. Fu l’ultimo atto di libertà di un uomo che aveva deciso di non piegarsi mai.
Oggi, al Colle della Portia, una croce ricorda il sacrificio di Alfredo Bevilacqua e dei suoi compagni. Ma il vero modo di onorarli non è una targa o una cerimonia stanca. È combattere ogni giorno contro i nuovi conformismi, contro l’indifferenza, contro la tentazione di voltarsi dall’altra parte.
Perché la Resistenza non è finita il 25 aprile. È un verbo che continua a chiedere il nostro impegno, anche adesso.
