L’Italia non ha mai fatto pienamente i conti col fascismo, portandosi dietro questo fardello: come è potuto accadere tutto questo? E come ci influenza ancora oggi?
Sono passati ottant’anni dalla Liberazione, ottant’anni dall’insurrezione di Genova, di Torino, di Milano, dalla discesa dei partigiani in armi dalle montagne. Le fotografie di quei giorni ci mostrano una generale esultanza: la guerra era finita, i tedeschi occupanti sconfitti, la Repubblica di Salò vinta. Mussolini era stato giustiziato con i più vicini dei suoi gerarchi, gli angloamericani entravano nelle città liberate, il governo era presieduto da Ferruccio Parri, l’Italia sembrava ritrovare la libertà dopo vent’anni di dittatura e i due anni terribili dell’occupazione. Le elezioni del 1946 e la Costituente sarebbero stati il suggello della democrazia ritrovata.
Eppure, se si leggono le memorie degli ultimi mesi della guerra, si ha la sensazione che già dall’ultimo inverno si percepisse che troppi sarebbero stati i compromessi alla fine della guerra, che i progetti di rinnovamento con cui i partiti si erano, nel 1943, gettati nella lotta armata si fossero in qualche modo arenati. Fin da prima della Liberazione era cominciato il passaggio nell’area dell’antifascismo di tanti fascisti, consapevoli del prossimo esito della guerra. Che l’Europa del dopo liberazione sarebbe stata divisa in due campi nemici era ormai più che un presagio: era una certezza. Il vento del Nord soffiava con minor forza già da un pezzo. Non era, come pure è stato detto, un tradimento della Resistenza, ma semmai il peso della continuità dello Stato fascista. La fascistizzazione era stata troppo di lunga durata, ed era andata troppo in profondità perché fosse possibile cambiare radicalmente l’apparato statale. Ma l’amnistia, fortemente voluta da Togliatti anche contro la volontà della maggior parte del partito, salvava ora, e rimetteva alla guida del paese uomini fortemente compromessi con il regime. Solo alcuni casi clamorosi: Guido Leto, il capo della polizia politica fascista (l’Ovra) dal 1938 al 1945, sottoposto nel dopoguerra ad epurazione, fu assolto nel 1946. Reintegrato, diresse dal 1948 i servizi segreti della Repubblica; Gaetano Azzariti, presidente della commissione sulla razza sotto Mussolini, ministro sotto Badoglio, fu presidente della Corte Costituzionale dal 1957 al 1961. Questo per indicare solo due esempi ai vertici. Ma la lettura degli atti dei processi contro i fascisti delle Corti d’Assise Straordinarie, che pure avrebbero dovuto essere affidate a magistrati almeno in odore di antifascismo, ci mostra quanto profondamente fossero penetrate nell’intera magistratura non solo la mentalità fascista ma anche gli stereotipi antisemiti.
Continuità, dunque, in un contesto, dopo il 1948, di allontanamento delle sinistre dal governo e di Guerra fredda a livello internazionale. Non eravamo sicuri, pensavano alcuni degli stessi dirigenti partigiani, che il fascismo fosse davvero finito, che non sarebbe riemerso presto. Gli eredi del regime di Salò intanto si ricostituivano, davano vita al partito neofascista Msi, sbiancato in parte dell’antisemitismo precedente, rimasto però attivo nei gruppi marginali, più estremisti.
Il primo tentativo del neofascismo di entrare a far parte dell’area di governo fu nel 1960, con il governo Tambroni, in cui i voti del Msi furono determinanti. La rivolta popolare di tanta parte d’Italia, sedata col sangue dalla polizia, portò però alla caduta del governo e aprì la strada al centrosinistra. Era una nuova generazione che si affacciava alla politica, e che si definiva Nuova Resistenza, quella delle magliette a righe, delle biglie lanciate per fermare le cariche della polizia a cavallo, come a Roma a Porta San Paolo nel luglio 1960. Molti di quei ragazzi avrebbero pochi anni dopo dato vita al 1968.
Iniziava un rinnovamento profondo dell’Italia, della sua mentalità, della sua politica. Sono gli anni in cui Basaglia riesce a chiudere i manicomi, in cui si rinnova il modo di studiare e di fare scuola con don Milani, in cui nasce il femminismo, comincia la lotta per il divorzio e l’aborto, si usano i contraccettivi, si abolisce il delitto d’onore. La vecchia generazione allevata sotto il fascismo sembra spazzata via. Ma sono anche gli anni del terrorismo nero, da piazza Fontana alla strage di Bologna, sono gli anni in cui i viaggiatori prendono l’abitudine di controllare sul portabagagli dei treni che non vi siano oggetti sospetti. Più la società cambia e si trasforma e più si estende il terrorismo nero. L’intreccio fra gli eredi dei fascisti del passato e i servizi segreti, spesso definiti deviati, è stretto. La volontà è quella di destabilizzare il paese, mentre in Europa ancora non è finito il franchismo e la Grecia dei colonnelli fa da punto di riferimento per l’Internazionale nera. Ma intanto, si precisa ed estende la memoria della Shoah, destinata alla fine del secolo a diventare il pilastro anche di un’Europa unita e volta a combattere razzismi, antisemitismi, autoritarismi.
Intanto scoppia il terrorismo delle Brigate Rosse, altrettanto e forse ancor più destabilizzante di quello nero. Ancor più perché divide il fronte delle sinistre, con ipotesi folli di rivoluzione, prive di qualsiasi rapporto con la realtà sociale e politica dell’Italia, e finisce per gettare l’ombra del dubbio su quell’era di conquiste sociali e di partecipazione politica che pur con le sue difficoltà era stata foriera di progresso e democrazia.
Alla fine del secolo il sistema politico che aveva caratterizzato quei decenni si stava esaurendo. Era possibile uscirne senza ricadere in forme di autoritarismo simili al fascismo? Sono i decenni successivi alla fine della divisione in due dell’Europa, quelli della scomparsa della classe operaia, del rifiuto progressivo della politica, del populismo delle destre, della chiusura nel privato. Una chiusura che provincializza il nostro paese: mai forse come in questi ultimi anni l’Italia resta lontana dall’Europa, dal dibattito suscitato dalla costruzione europea, dalla fine del comunismo, dalla guerra di Bosnia, preludio all’indifferenza di oggi verso la guerra di conquista dell’Ucraina e verso quella di Gaza, che tanto ci toccano da vicino. Fino alla vittoria elettorale di Fratelli d’Italia, gli eredi dei neofascisti del Msi, a loro volta gli eredi di Salò.
Ma davvero siamo ancora fascisti? Il non aver mai fatto i conti con il fascismo, e ancor meno con i repubblichini di Salò, la mancata Norimberga italiana insomma, ha lasciato che questo humus prosperasse, crescesse? Sono gli stessi fascisti, naturalmente con le dovute differenze, o si tratta di fenomeni del tutto nuovi di autoritarismi? Come chiamarli, e come opporvisi? E quanto questa eredità ha contribuito a far sì che in Italia non ci sia più stata, dopo il 1945, una destra decente, conservatrice? Abbiamo invece una destra anche in parte diversa da quella di un secolo fa, ma altrettanto incapace, miscuglio di qualunquismo, populismo, ignoranza?
È del 1950 un libro straordinario di Carlo Levi sui difficili anni del dopoguerra, L’Orologio: raccontava la fine del Partito d’Azione, ma anche il mondo in cui quella fine si realizzò: la vittoria dei due grandi partiti di massa, quello democristiano e quello comunista, la Roma della politica in quel tempo in cui si era proclamata la Repubblica e si era scritta la nostra Costituzione. Era un momento in cui, con gli occhi del dopo, tutto era ancora aperto, possibile. In cui gli strumenti della democrazia venivano utilizzati con entusiasmo dai politici e dalla gente comune. Forse, per capire quale sia stato il momento in cui questo non è più bastato, bisognerebbe riflettere anche su quei momenti.