Nel giorno in cui il mondo cristiano celebra la domenica delle palme, a Gaza l’ultimo ospedale ancora in funzione viene colpito dai missili. Tra evacuazioni forzate, bambini morti e reparti distrutti, la guerra infrange ogni soglia di pietà. E ci costringe a scegliere da che parte stare.
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C’è un confine che nessuna guerra dovrebbe superare. È quello che separa la logica del conflitto dal collasso dell’umanità. Quando si bombardano ospedali, si calpesta quel limite con brutalità. E l’attacco all’ospedale Al-Ahli di Gaza City – il cosiddetto “ospedale battista”, gestito dalla Chiesa anglicana – è l’ennesima prova di quanto quel confine sia diventato carta straccia.
Nel cuore della notte, nel silenzio di una città già devastata, i missili israeliani hanno colpito il pronto soccorso, la farmacia, la struttura che ospita l’ossigeno per i pazienti in terapia intensiva. La direzione dell’ospedale ha ricevuto una telefonata: “Avete venti minuti per evacuare”. In venti minuti non si svuota un ospedale. Non si trasportano bambini feriti, non si spostano letti, non si spengono le paure. Il risultato? Pazienti stesi sull’asfalto, barelle tra le macerie, medici costretti a scegliere chi salvare e chi lasciare indietro. Un bambino è morto. Altri forse seguiranno. E nessuno potrà dire “non lo sapevamo”.
L’esercito israeliano ha rivendicato l’operazione: “C’era un centro di comando di Hamas”. È la stessa giustificazione usata per l’ospedale al-Shifa, per quello indonesiano, per le scuole UNRWA. In un crescendo retorico che trasforma ogni edificio civile in una minaccia militare, ogni corpo in ostaggio, ogni rifugio in bersaglio legittimo. E mentre i caccia sorvolano i cieli e le parole volano basse, l’etica internazionale affonda.
Eppure, oggi non è un giorno qualunque. È la Domenica delle Palme. Inizia la Settimana Santa per milioni di credenti nel mondo: un tempo di pace, compassione, redenzione. Proprio mentre si commemorano le ultime ore di vita di un uomo che guariva i malati e difendeva i più fragili, un ospedale viene colpito, pazienti vengono gettati per strada, un bambino muore tra le braccia di chi non ha avuto nemmeno il tempo di curarlo. Un simbolo di misericordia si spezza sotto il fuoco dei missili. È una ferita profonda, che attraversa non solo Gaza, ma la coscienza di chi osserva e tace.
Non si può restare neutri davanti alla distruzione sistematica di infrastrutture sanitarie. Non si può chiudere gli occhi davanti alla sofferenza dei civili compressi in un territorio che si restringe ogni giorno di più. Il diritto internazionale umanitario – quello che vieta attacchi indiscriminati, quello che tutela ospedali, scuole e civili – è stato scritto proprio per frenare gli orrori che oggi si consumano a Gaza.
E allora, da cristiani, da credenti di ogni fede, da cittadini liberi, da esseri umani, non possiamo far finta che questo non ci riguardi. La guerra non è più solo là. È anche qui, nelle nostre coscienze, nei nostri silenzi. In quello che scegliamo di vedere e in quello che decidiamo di ignorare.
Non si tratta di essere pro o contro Israele, pro o contro Palestina. Si tratta di essere pro umanità. Di rifiutare l’idea che ogni mezzo sia giustificato dalla paura. Di denunciare la follia di una guerra che non lascia spazio a cure, a pietà, a vita. Di scegliere tra la vita e la barbarie, tra l’umanità e il cinismo, tra chi costruisce ponti e chi rade al suolo ospedali.