Non erano “ai margini”, non erano comparse. Erano protagoniste, spesso decisive, della lotta di Liberazione. Eppure la storia ufficiale ha continuato a vestirle da infermiere e da cuoche, ignorando scelte politiche radicali, coraggio quotidiano e ruoli militari centrali. Un debito ancora aperto.
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Nel grande racconto epico della Resistenza italiana c’è un vuoto clamoroso, una mancanza che grida ancora oggi. Le donne. Non quelle simboliche, da cartolina, ma le migliaia di donne reali che hanno reso possibile – nel senso più letterale del termine – la Liberazione dal nazifascismo. Non comparse, ma protagoniste. Non solo “madri della patria”, ma combattenti, sabotatrici, organizzatrici, staffette con più chilometri nelle gambe che parole nei libri di storia.
Eppure, a guerra finita, le vediamo sparire. Dalle sfilate, dalle cariche ufficiali, dalle lapidi. Perché?
Le donne non erano tenute a combattere: non c’era nessun bando, nessun reclutamento forzato. Eppure l’hanno fatto. Lo hanno fatto per scelta, per rabbia, per fame, per amore della libertà. Lo hanno fatto perché in quel disordine che era diventato il quotidiano – tra bombe, rastrellamenti e paura – hanno trovato un ordine nuovo: quello della solidarietà, della lotta, della possibilità di essere cittadine libere in un Paese libero.
Hanno fatto di tutto. Hanno nascosto fuggitivi, trasportato armi, curato feriti, stampato volantini. Hanno guidato rivolte spontanee, come quelle che scossero Napoli nel settembre ’43 o Carrara nel luglio ’44. Ma hanno anche sparato, comandato, rischiato. E spesso sono morte. La loro guerra non era meno pericolosa, era solo meno raccontata.
Dietro quella che venne definita “Resistenza civile” si muoveva un esercito femminile invisibile. Invisibile perché non riconosciuto. Invisibile perché incompatibile con l’immaginario virile del “guerriero partigiano”. Le donne che combattevano non erano solo una provocazione al fascismo: lo erano anche per molti dei loro compagni. E così, una volta terminata la guerra, a molte di loro fu chiesto di tornare “al loro posto”. Cioè a casa. Magari con un grazie. Ma senza un grado. E senza voce.
Solo 35.000 donne ebbero formalmente riconosciuto lo status di partigiana combattente, contro i 150.000 uomini. Ma sappiamo bene che molte non chiesero nemmeno il riconoscimento, sapendo che la risposta sarebbe stata: non è un ruolo adatto a voi.
Eppure, oggi più che mai, rileggere quella storia da una prospettiva femminile è un atto politico. Perché la Resistenza non è un mito da venerare, ma un laboratorio di democrazia ancora aperto. E riconoscere il protagonismo delle donne significa smontare quel paradigma tossico che continua a definire chi è “centrale” nella politica, nella storia, nel cambiamento. Le donne della Resistenza non chiedevano un monumento: chiedevano giustizia, parità, cittadinanza. E lo facevano col fucile, ma anche con un gesto semplice come nascondere un compagno o salvare una famiglia ebrea.
Ricordarle non è solo un dovere della memoria. È una battaglia ancora in corso.