Aldo Moro e il compromesso storico: il sequestro che cambiò l’Italia

Sangue in via Fani, 55 giorni di angoscia e una morte che segnò la fine di un’epoca politica

La mattina del 16 marzo 1978 l’Italia fu scossa da un evento che avrebbe cambiato per sempre la sua storia politica. In via Mario Fani, nel quartiere romano di Monte Mario, un commando delle Brigate Rosse tese un agguato spietato: l’auto su cui viaggiava il presidente della Democrazia Cristiana, Aldo Moro, fu bloccata, e in meno di due minuti furono esplosi oltre novanta colpi di arma da fuoco. La scorta di Moro, composta da cinque uomini – Raffaele Iozzino, Oreste Leonardi, Domenico Ricci, Giulio Rivera e Francesco Zizzi – fu sterminata sul posto. I brigatisti prelevarono Moro, lo caricarono su un’altra vettura e si dileguarono nel traffico.

Poco dopo, alle 10:15, una serie di telefonate ai principali organi di stampa rivendicò il rapimento con parole cariche di ostilità: «Questa mattina abbiamo rapito il Presidente della Democrazia Cristiana ed eliminato la sua scorta, le “teste di cuoio” di Cossiga». Non fu una scelta casuale. Quella stessa giornata il Parlamento si accingeva a votare la fiducia a un governo di solidarietà nazionale, appoggiato, per la prima volta dal 1947, dal Partito Comunista Italiano. Moro ne era stato il principale artefice, e le Brigate Rosse vollero colpire al cuore il compromesso storico.

Un sequestro lungo 55 giorni – Quello che seguì fu un dramma che si consumò nell’arco di 55 giorni. Le Brigate Rosse scandirono il sequestro con una serie di comunicati, alternati a richieste di scambio di prigionieri e lettere accorate di Moro, che invocava aiuto e una trattativa. Ma il governo restò fermo sulla linea della fermezza: nessuna concessione ai terroristi. Le BR, con il Comunicato n. 9, annunciarono l’esecuzione di Moro. Il 9 maggio 1978 il suo corpo fu ritrovato nel bagagliaio di una Renault 4 rossa in via Michelangelo Caetani, una posizione altamente simbolica: a metà strada tra le sedi della DC e del PCI.

L’uomo del compromesso storico – Per comprendere la portata di questa tragedia, bisogna risalire alle radici della carriera politica di Moro. Nato a Maglie, in Puglia, nel 1916, si laureò in Giurisprudenza a soli 22 anni e iniziò presto a muovere i primi passi nella politica. Fu tra i fondatori della Democrazia Cristiana nel 1943, durante la clandestinità antifascista, e dopo la guerra contribuì alla scrittura della Costituzione italiana come membro dell’Assemblea Costituente.

Ma Moro non fu solo un leader democristiano: fu un innovatore, un uomo capace di leggere le trasformazioni della società italiana. Negli anni ‘60, dopo il crollo del governo Tambroni, sostenuto dal Movimento Sociale Italiano, Moro spinse per un’apertura alla sinistra, portando il Partito Socialista nell’area di governo. Questo progetto di collaborazione con le forze progressiste si sarebbe evoluto negli anni ‘70 con il compromesso storico, un’alleanza strategica tra la DC e il PCI di Enrico Berlinguer. L’idea era quella di includere i comunisti nell’area di governo per garantire stabilità al Paese, evitando il rischio di derive autoritarie e violenze sociali.

Il fallimento di un’idea – Il 16 marzo 1978 doveva essere il giorno in cui questo progetto avrebbe preso forma con il sostegno del Parlamento. Ma l’attentato di via Fani spezzò il sogno di Moro e segnò l’inizio di un periodo oscuro per la politica italiana. Dopo la sua morte, il compromesso storico si arenò. La collaborazione tra DC e PCI si dissolse, lasciando il Paese in balia di un decennio di instabilità, scandito da violenza politica e terrorismo.

Aldo Moro rimane una figura controversa e ancora oggi oggetto di dibattito. La sua scomparsa ha lasciato una ferita profonda nella storia italiana, un vuoto che nessuna indagine, processo o commissione parlamentare è riuscita a colmare del tutto. A distanza di oltre quarant’anni, il caso Moro resta un simbolo di un’Italia lacerata, di un sogno politico spezzato nel sangue e di una democrazia che ha pagato un prezzo altissimo per il suo equilibrio.

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