Il Partito Democratico sostiene i referendum contro il Jobs Act, ma dietro lo slogan della tutela dei lavoratori si nasconde il rischio di maggiore precarietà, meno opportunità e un colpo alle piccole imprese. Non credo che un ritorno al passato possa essere la soluzione.
Il Partito Democratico, con l’intervento della Schlein alla direzione nazionale del 27 febbraio, ha deciso ufficialmente di sostenere i referendum proposti dalla CGIL “contro” il Jobs Act, una riforma del mercato del lavoro introdotta tra il 2014 e il 2016 dal governo Renzi. Una scelta che, più che guardare agli effetti concreti delle modifiche proposte, sembra rispondere a una logica prettamente ideologica, rischiando di arrecare più danni che benefici ai lavoratori stessi.
Il ritorno alla Legge Fornero: davvero un passo avanti? – Uno dei quesiti mira all’eliminazione del decreto legislativo n. 23/2015, cuore del Jobs Act, per riportare in vigore la disciplina della Legge Fornero. Questo comporterebbe il ritorno a un sistema in cui la sanzione per il licenziamento illegittimo verrebbe determinata dal giudice senza criteri predeterminati, con la possibilità di reintegro solo in pochi casi specifici. Tuttavia, la Corte costituzionale ha già più volte modificato il Jobs Act, avvicinandolo molto alla vecchia disciplina: oggi la reintegrazione è prevista in caso di licenziamento discriminatorio e per colpa manifesta, mentre per altri casi vi è un indennizzo economico che la Consulta ha reso più flessibile. Il referendum, quindi, non porterebbe a un vero miglioramento delle tutele, ma ridurrebbe il tetto massimo delle sanzioni economiche da 36 a 24 mensilità, con il rischio di penalizzare i lavoratori licenziati illegittimamente.
Contratti a termine: una stretta che danneggerà l’occupazione – Un altro quesito propone di eliminare la possibilità di stipulare contratti a termine senza una causale, obbligando i datori di lavoro a giustificare ogni assunzione a tempo determinato con ragioni tecniche o produttive. Questo cambiamento potrebbe risultare deleterio: la reintroduzione di una rigida disciplina delle causali, infatti, aveva già in passato causato un’impennata del contenzioso giudiziario e una contrazione dell’occupazione temporanea, portando molte imprese a rinunciare ad assumere o a cercare alternative contrattuali meno tutelate. Oggi il contratto a termine è una delle principali porte d’ingresso verso il tempo indeterminato, con un alto tasso di conversione. Bloccare questa possibilità potrebbe ridurre le opportunità per i giovani e le fasce più deboli del mercato del lavoro, spingendo verso forme di occupazione precarie o addirittura irregolari.
Sanzioni per le piccole imprese: un rischio per il tessuto produttivo -Se passasse il quesito che propone l’eliminazione del tetto massimo all’indennità per licenziamento illegittimo nelle piccole imprese (attualmente fissato a sei mensilità), anche le aziende con meno di 15 dipendenti (la maggior parte del tessuto imprenditoriale italiano) si troverebbero esposte a risarcimenti potenzialmente illimitati. Questo potrebbe disincentivare le assunzioni a tempo indeterminato, spingendo le piccole imprese a preferire contratti più flessibili o a ridurre il personale per evitare rischi legali ed economici insostenibili. In un periodo in cui le imprese faticano a trovare lavoratori qualificati, creare ulteriori incertezze non sembra una strategia vincente.
Conclusione: una battaglia ideologica che ignora la realtà – Schlein e il PD hanno deciso di schierarsi per il “Sì” ai referendum, nonostante le possibilità di raggiungere il quorum di validità siano molto basse, nonostante molti dei loro parlamentari abbiano votato a favore del Jobs Act in passato, nonostante buona parte dei suoi elettori non ne avvertano né l’urgenza né l’utilità. Più che un referendum sul mercato del lavoro appare un referendum sulla linea del partito: riformista o massimalista. Una volta, quando i partiti erano una cosa seria, la linea veniva decisa dagli iscritti nei congressi, una volta.